Perchè rammendare?

Partendo dalla definizione della Treccani, scopriamo che il rammendo è una metafora senza fine.

“Riparare un tessuto o un lavoro a maglia strappato, tagliato o bruciato, o logoro e liso, riprendendone e riallacciandone i fili, o ricostituendoli con filo identico, in modo che il guasto non si veda o si noti il meno possibile: ho tante calze da r.; mi son fatto r. lo strappo dei calzoni; stava rammendando un vecchio lenzuolo”.

cit. Treccani

Si rammendano i calzini, si ricompongono le ceramiche, si riannodano le relazioni, si sistemano le strade, si ricuciono le vele. 

Tutto ciò che si rompe, si scheggia, si danneggia, può essere riparato, ricucito, ritessuto. 

Lo racconta molto bene l’architetto Renzo Piano, da tempo impegnato grazie al gruppo G124 da lui creato, nel rammendo delle periferie: “Rammendare è un’arte straordinaria, che non si riduce a rattoppare, riparare, prendersi cura di ciò che si è rotto o strappato, ma esprime un salto di qualità, significa ricucire, tenere assieme, congiungere, connettere. L’ago e il filo evocano in noi l’azione lenta e scientifica di avvicinare un lembo a un altro; di stringere, di porre di nuovo a contatto ciò che è separato”.


Rammendare è un atto intimo e profondo, non solo riparatorio, come afferma Renzo Piano, ma racchiude in sé la cura, il tempo, la pazienza, l’attenzione, il riguardo che si ha verso ciò che si ripara. 

Per questo quando mi affidano un progetto creativo pongo alcune domande, sia tecniche che emotive, per avere più informazioni possibili. Spesso sono i clienti stessi che raccontano spontaneamente la storia del loro capo. Quindi osservo, tocco il materiale, leggo le etichette della composizione, analizzo i punti deboli e i punti di forza, le unicità e le criticità. La scelta della strada da intraprendere spesso non arriva all’istante. 

Ciascun progetto è speciale e diverso: ogni maglione, sciarpa, abito, cappotto è unico, lo è innanzitutto per la persona che decide di affidarmelo per dargli nuova vita. 

Le variabili sono tante: riguardano il materiale con cui è realizzato e il tipo di lavorazione; aspetti che guideranno la scelta della tecnica, del filato o del tessuto da applicare.

Elementi importanti per il risultato finale, quando il rammendo prenderà forma rivelando risultati sorprendenti.

Parto dal concetto che il difetto, la ferita che il tempo e l’usura tracciano sui nostri indumenti sono parte della loro storia, non vanno cancellati ma evidenziati, regalando loro un valore che li renderà unici.

È come mettere un sigillo, una firma, qualcosa che renda personale e nuovo, ai nostri occhi, quel capo difficile da abbandonare.

Riparare gli indumenti è nella natura dell’uomo, da sempre, ogni cultura e ogni popolo ha sviluppato metodi differenti di rammendo e riparazione, secondo i propri usi e costumi, con lo stesso obiettivo: conservare. L’abitudine di prendersi cura e prolungare la vita degli indumenti è stata stravolta dalla moda usa e getta, il fast fashion, che spinge ad acquistare più di ciò che occorre, in un ciclo continuo di consumo, accumulo e abbandono. 

Nella nostra cultura il rammendo è sempre stato concepito come invisibile: indossare un capo rattoppato è considerato sinonimo di povertà e vergogna.

Al di fuori dei nostri confini nazionali, il visible mending, ovvero il rammendo visibile, negli ultimi anni è diventato un fenomeno molto diffuso. Il concetto di rammendo tradizionale è stato ribaltato: prendendo le distanze dalla filosofia usa e getta, il rammendo visibile mette in evidenza il difetto, trasformandolo in un dettaglio esclusivo, un tratto personale che rende il capo unico e irripetibile, senza tralasciare un nuovo pensiero etico rivolto all’ambiente. 

Il visible mending ci riporta all’arte giapponese del kintsugi, un’antica tecnica tradizionale con la quale si riparano oggetti in ceramica, rotti o scheggiati, con Urushi, una vernice di resina naturale estratta dagli alberi Urushi Lacquer. Il kintsugi non si limita a ricomporre i frammenti ma, con cura, tempo e attenzione, usa la polvere d’oro per evidenziare le linee di frattura, conferendo all’oggetto un valore aggiunto. 

Ritroviamo questo concetto anche nella filosofia Wabi-Sabi, le cui origini affondano nel buddismo. Si tratta di una sorta di estetica Zen il cui significato non è facile da tradurre nella nostra lingua. 

Wabi significa dolce malinconia dello stare in solitudine e Sabi bellezza data dal passare del tempo. Le caratteristiche di questa estetica sono l’asimmetria, la semplicità, l’aspetto naturale, l’integrità dei materiali, il loro mutare nel tempo. Macchie, buchi, crepe, lacerazioni, usure, tessuti sbiaditi, sono tutte manifestazioni che testimoniano la storia di un oggetto, il suo passaggio su questa terra. Queste testimonianze del tempo che passa, secondo Wabi-Sabi, non andrebbero eliminate ma celebrate e prolungate nel tempo. 

In netto contrasto con la nostra continua ricerca della perfezione estetica, questa filosofia celebra la bellezza nell’imperfezione e nell’impermanenza e prevede l’accettazione dei segni lasciati dal passare del tempo, valorizzandoli e trasformando il difetto in pregio, aumentandone la bellezza. 

Quante analogie con il visible mending! Da un mucchio di cocci si può raggiungere una forma d’arte, proprio come un buco sul tessuto può trasformarsi in un dettaglio di rara bellezza.

Questa chiave di lettura è sorprendente se accostata al nostro vivere, laddove il concetto di errore può essere innalzato.

In questa lettera, che arriva circa una volta al mese, ti racconto dove sono e cosa faccio: workshop, progetti, corsi e incontri. E poi piccole riflessioni, spunti e appunti per approfondire il mondo del visible mending e non solo.